AA.VV. su Luciano Troisio

Diario poetico di un viaggiatore  *

* Luciano Troisio, “Location (poesie)”,  (Ed.Università di Padova 2012)
Interventi di Fortuna Della Porta, Gio Ferri, Stefano Guglielmin, Ivan Pozzoni


Fortuna Della Porta

Pensavamo a Troisio, conoscendo le sue continue tappe all’estero, soprattutto nei paesi orientali, come a un romantico esploratore ottocentesco, alla ricerca di paesaggi altri, di esotismi, magari un indagatore dei sensi del mondo alla Hermann Hesse, come la cultura giovanile della sua generazione gli ha consegnato. Invece era un fuggiasco per vie non ancora contaminate dal marasma in cui è finita la società occidentale e, a restringerla, anche il suo Veneto.

Insomma, le trasferte levantine sono fughe: il solo modo che conosce per scendere dal treno in corsa che si avvia alla catastrofe, per allontanarsi dal decadimento della cultura occidentale –in senso lato-, includendovi i mercati finanziari, la corruzione del potere, le disparità legate alla globalizzazione, al capitalismo che si muove dietro le borse…e così via fino a tutte le finzioni e le ingiustizie in cui si muove la cosiddetta società di massa, che Marcuse, un altro della sua gioventù, così bene anticipò, almeno per quanto riguarda la perdita dell’identità critica del soggetto sociale. Non si assolve, rispetto ai problemi. Nel sonno della ragione, tacitata dall’edonismo imperante, nell’illusione che tutto sarebbe toccato a tutti, siamo stati bene e ciascuno ha taciuto, compresi gli intellettuali che hanno preferito allinearsi.

Pasolini avrebbe esteso di sicuro alla nostra epoca -postindustriale, postmoderna-, il periodo della scomparsa delle lucciole, come scrisse in quell’articolo del Corriere della Sera del 1975, ma con lui sono svaniti i pensatori e i critici carismatici, in grado di fustigare la decadenza dei costumi. Per Troisio, dunque, siamo stati complici. Ci siamo compiaciuti di sguazzare in acque melmose e malsane, sebbene ai più avveduti tocca, prima poi, in un sussulto di intelligenza e di riflessione, fare i conti con quello che accade. Ora confessa di sentirsi deluso e tradito. Sente il peso della solitudine: una solitudine profonda che include la mancanza di rapporti, ma soprattutto l’impossibilità  di trovare un senso al mondo, nell’accezione filosofica più idonea.

Anche l’amore appartiene a quella stessa realtà posticcia e di plastica, dalla quale ha preso le distanze con una ferma e accurata denuncia.

Sembra, poi, che abbia quasi sentito anche il bisogno di allontanarsi fisicamente dalla situazione politica -sempre in senso lato- per meglio osservarla con occhio sgombro: difatti i testi non sono stati scritti in Italia.

Rousseau sostenne che tutto è buono nelle mani della natura e tutto si corrompe nelle mani degli uomini. Troisio ha un’opinione altrettanto impietosa e desolante dell’umanità civilizzata, dei cosiddetti parvenus dai modi aristocratici, avidi aggiustacessi, degli accademici invidiosi, che con metodi legali gli fotteranno il posto.

L’Assenza, viene a trovarlo. Scritta con la maiuscola, come Nulla e Parola, di certo, rappresenta l’unica verità che si possa applicare al viaggio, questa volta inteso come percorso della vita. Ad essere più rigorosi, nel pensiero moderno è lo stesso concetto di verità ad essere andato in crisi e neppure di recente, se dopo Marx, Freud e Nietzsche il mondo si delinea come il luogo della mistificazione, della finzione, del mascheramento.  Marx si scagliò veemente contro le ideologie, Freud considerò che l’uomo fosse spinto all’azione dall’impulso sessuale e quindi dalla ricerca del piacere, intento inconciliabile con al vita sociale e di Nietzsche, senza scendere nei dettagli, conosciamo la frase: Dio è morto.

O Nulla/ …/ ti affidiamo la nostra Nullità

Altrove:
Finale banale stranoto ma/ durante il tragitto/ possiamo concederci/ stupende ricreazioni come se/ l'impatto non dovesse avvenire mai/ nel segmento del personale nostro leasing). // Per il momento il meccanismo funziona così/ [sebbene la stragrande maggioranza/ non capisca (il) Nulla.

Assenza è precarietà e impossibilità ad esprimere giudizi critici anche sulla porzione geografica occupata:

hic sumus siamo qui we are here / io e Lucilio siamo qui, non vorremmo esserci/ il fatto di essere qui è incompleto e in effetti/non è detto che siamo proprio qui.

In un altro punto:

E' il Vuoto l'Infinito,/ il vagare della materia nel vuoto ci confonde,/ fa sì che ci crediamo/ parte di una struttura infinita/ che invece non c'è.

Poco dopo, percorrendo la silloge, incontriamo altro lemma significativo scritto ancora, come si diceva, con lettera maiuscola, in un’espressione pregna di ironia che è una delle qualità della poesia di Troisio che disdegna i toni lirici, preferisce spesso un lessico colloquiale e quotidiano, in mezzo a cui intrufola con noncuranza termini altolocati, riferimenti colti, attinenze agli ultimi ritrovati della filosofia e delle scienze, ma anche lemmi da altre lingue, compreso il latino.  Pur senza tralasciare assonanze, rime interne, strofe e tutto l’armamentario di un poeta scaltro, la sua scrittura  appare tuttavia naturale, con continui rovesciamenti dal basso all’alto e viceversa, in un impasto che nulla concede al tono elegiaco, manierato o lezioso.

Il mondo è bellissimo./ Gli manca la Parola.

Ma oltre la Parola, ossia la possibilità di definirlo, al mondo manca l’autenticità, qualcosa che lo renda vero al di fuori della res cogitans. Nulla si può dire di esso e le varie filosofie che tentano di darne conto in termini di obiettività e veridicità sono solo esercizi mentali che non escono dalla testa di chi li ha concepiti.

Il mondo è ombra, ma non l’ombra platonica sulla parete della caverna che si sana con gli universali, ma proprio parvenza, fumo dietro il velo di maya. Si sostiene sull’ossimoro.

Con termini moderni Troisio definisce il mondo un ologramma.

Il mondo è solo nella mente./ Al di fuori ci è vietato.

In realtà le posizioni della fisica e della filosofia più innovative stanno procedendo proprio verso tali teorie (l’universo olografico di Bohom o la teroria del multiverso) e i recenti esperimenti sui neutrini che sembrerebbero viaggiare ad una velocità superiore a quella della luce, potrebbero alla fine compromettere ogni ipotesi di universo meccanicistico, legato alla teoria di Einstein. Sembra che sia proprio la fisica, oggi, a imporre alla filosofia nuovi percorsi. Dopo tutto l’arte si è già appropriata di concetti simili, se pensiamo al successo che ha avuto negli anni passati un film come Matrix. In ogni modo, solo una mente sgombrata da preconcetti, anche vuota dell’idea di Dio, può avviarsi sulla strada della parziale e temporanea comprensione delle leggi che regolano il cosmo, senza mai dimenticare la fallibilità della stessa scienza, che può continuare il suo iter proprio puntellandosi sugli errori precedenti.

L'ateo non tiene conto della Morale che vieta l'esperimento.

In conclusione, siamo partiti da una crisi sociale, benché di livello planetario, per giungere alla crisi esistenziale dell’uomo, ad un relativismo pessimistico e melanconico che davanti ai nostri occhi si dilata nel libro, che è affastellato di riferimenti non solo alla cultura classica di provenienza, ma anche alla matematica -Fibonacci-,  alle più innovative ipotesi biologiche e cosmologiche.

Ma poiché le coeur a des raisons que la raison ne connait pas, Troisio può permettersi la speranza e augurarsi dunque che le porticine, seppure non a comando si riaprano/ avvenga la partenza sia concesso/ d'essere ancora ammesso/ al desiato divino congresso.

Non mancano imperdibili quadretti che ritraggono il suo girovagare, soprattutto bar e ragazze, ma anche paesaggi e vecchi antiquari, raggiunti anche loro, in una parte per noi così laterale del mondo, dagli zainetti firmati e dagli accendini zip.

Il libro è tanto complesso che per contenerlo bisognerebbe a propria volta scriverne uno. Ciascuno può leggerlo al livello che preferisce. Si è scelta una traccia che desse conto della ricchezza e profondità del messaggio che Luciano ci propone, uno dei più affascinanti che ci ha presentato nella sua scrittura: un tragitto fisico, spirituale e di ricerca filosofica, in una generosità di svelamento che emoziona.

 

Gio Ferri

Troppo conosciuti sono il nomadismo e le scritture (prosa, poesia, critica…) di Luciano Troisio per parlarne ancora. Anche se, in realtà, mai si finirebbe seguendolo sulle mappe geografiche e su quelle letterarie (conseguenti).

Qui vorrei, se l’autore e il lettore dovessero sopportarlo, dire soprattutto di questa raccolta che mi sembra esemplare, fra l’altro, rispetto anche alle precedenti, per cogliere in linea generale, e in particolare per Troisio, le ragioni formali che distinguono (o dovrebbero distinguere) lo strumento abituale della narrazione, e soprattutto della narrazione di viaggio, dalla dismisura più strettamente poetica del verso, con le sue sintesi, le sue allitterazioni, le sue paratassi, i suoi ‘a capo’… l’isomorfismo e le sue ambiguità. Argomento, questo, fin troppo trattato dalla critica letteraria, tuttavia, mi pare, maggiormente connesso alle esperienze di vita e di parola del nostro Autore.

È banale richiamarsi alla comprovata tradizione retorico-stilistica innanzitutto trattando della narrazione: modalità che secondo regole coordinate e conseguenti, potremmo dire ‘logiche’,  dovrebbe, almeno secondo Frye, passare dall’agón (viaggio), al páthos (conflitto, anche solamente interiore), alla anagnórisis (l’agnizione dell’eroe, che può essere l’autore medesimo, il quale viaggiando si riconosce).  Si tratta comunque del discorso diretto in avanti (secondo Lausberg) che al contrario del verso non conosce andata e ritorno regolari espressi in cadenze ritmiche, sollecitate per lo più dai prolifici disordini dell’inconscio.

Alla poesia, diversamente dalla narrazione prosastica, si riconosce la complessa disposizione ritmica, dalla selezione e combinazione delle parole in una sequenza dominata dal principio di equivalenza, dallo stretto rapporto semantico e fonetico dei segni (Jakobson).

Poiché il tema principe della scrittura di Troisio è tuttavia il viaggio, inteso come vicenda nomade, con partenze, prese di coscienza umane e logistiche, e ritorni (più o meno andati a buon fine), secondo l’avventura di Ulisse da Omero a Joyce, non si può negare che lo stilema di fondo della sua scrittura sia logico-prosastico. E ciò vale sovente pure per quella rappresentazione ch’egli definisce, anche formalmente per quanto attiene la grafia sulla pagina (gli a capo, appunto), come poesia.

Per la verità le comprovabili oggettualità testuali, frequentate soprattutto in quest’ambito distintivo da Troisio, ci costringono, per meglio comprendere, ad allargare il concetto di poesia oltre i confini retorico-stilistici tradizionali citati (banalmente e dio mi perdoni), qui, poco più sopra. E non voglio riferirmi, altrettanto banalmente, alla psicoanalisi, in quanto passpartout per qualsiasi umana evenienza memoriale, o anche inconsciamente icastica. Per cogliere il passaggio dalla narrazione prosastica alla poesia in Troisio – così strettamente coniugate fra le sue esperienze e i suoi testi -  credo di dovermi riferire, in quanto alla poesia, alla necessità ampiamente teorizzata dal matematico statunitense Rudy Rucker, e da molti altri attratti dalle stesse discipline: vale a dire all’opportunità di viaggiare negli universi di ordine superiore. Anche solo sfiorare l’argomento della quarta dimensione comporterebbe, per il mio discorso su la poesia di Troisio, un’ampia conoscenza di spazi e concetti complessi e sovente paradossali. Mi limito ad una illuminante citazione dello stesso Rucker: «… [considerando la realtà oltre le dimensioni universalmente riconosciute] la mia visuale cominciò ad ampliarsi… Davanti allo spaziare della mia visione, che descriveva quasi un semicerchio, per molte centinaia di miglia l’ampia superficie della terra divenne trasparente come l’acqua più limpida… e vidi… gli animali, gli uomini, le foreste dell’emisfero orientale, anche a migliaia di miglia dalla stanza in cui mi abbandonavo a queste osservazioni» (A.Jackson Davis, The Magic Staff, 1876).  Sottolineo, per ragion di cronaca geografica, emisfero orientale in quanto, luogo, spazio, universo principalmente frequentato da Luciano Troisio.

In una lettera del 2004 indirizzata all’amico Autore mi capitò di notare che percorrere in breve quegli universi (terre, uomini, animali…), cioè l’Universo, non è facile in una breve e occasionale lettura. Quegli universi vanno vissuti dentro, dietro, oltre la fluenza di quell’accumulo di segni e segnali e suoni e immagini che fanno il rumoroso silenzio della nostra (in)coscienza di occidentali, sovente, quasi sempre prevenuti, sviati dalla nostra (im)potenza. La folta, infinita ma non indefinita scrittura di Troisio smuove, porta alla superficie e insieme approfondisce con l’apporto della passione – prima della ragione – la dismisura delle nostre originarie dimenticanze.

Ciò vale ancora una volta per l’intera produzione-passione di Troisio che balza apparentemente senza sosta fra la narrazione prosastica e la presa di coscienza poetica. Sebbene, a mio parere, Troisio sia essenzialmente un narratore, un filosofo-fotografo della realtà visibile anche quando scrive in versi. Pur essendo la scrittura comunque sempre carica di fluente pregnanza. Ora non si tratta, rileggendolo in questa raccolta, o diario (caratteristica quest’ultima appunto di una narrazione anche temporale), di riprendere l’obsoleto metodo di lettura più o meno crociano, bensì di cogliere il senso più profondo (o abissale) che sfugge appunto al puro e documentario racconto per - posso dirlo? - ... sublimarlo. Se non, di contro, sprofondarne il senso nell’abisso di una verità indicibile… e non documentabile.

A puro titolo d’esempio cito un paio di passaggi brevissimi nei quali può non distinguersi specificamente, secondo le premesse di questo mio modesto discorso, la prosa dalla poesia. Tuttavia intesa, quest’ultima, nella maniera detta, appunto, e non nella determinazione generica dell’uso comune, secondo il quale qualsiasi cosa buona o bella o giusta o appariscente o spettacolare o meditativa si vuol definire sempre con il lemma ‘poesia’. Inutile ribadire che la poesia è un meccanismo subliminale che dice ciò che non si può dire (è qui che non sempre si riesce a catalogare  correttamente Wittgenstein!). Quando ciò che dice si può dire, allora sorregge lo strumento più o meno logico, sintattico, della prosa, se non addirittura della filosofia, vale a dire della ragione (o presunta tale) e delle sue consequenzialità.

Da Tirtagangga e varie sorgenti:
… [a Bali]… scorreva quasi a cielo aperto una fogna nauseabonda.  Miasmi e intenso profumo di frangipani accompagnavano l’aroma del buon caffè balinese con tanti fondi, simile a quello greco-turco. Il luogo comune era di particolare fascino [poetico?... corsivo mio!]; bello, consolatorio centellinare quel caffè tra volti compositi e cosmopoliti…

E all’inizio di uno dei racconti:

… [il protagonista] seguiva queste divagazioni scherzose perché era solo sul risciò, per farsi compagnia, temendo di perdere di vista l’amico e di restare nell’oceano mosso della gente in preda alle vertigini che lo assediavano quando era tra la folla in movimento, trasmettendo un poco spiegabile terrore…

Dalla raccolta poetica Strawberry-stop:

… Miope insisto ad illustrare: / … un posto sciccoso subito qui oltre il ponte Trang Tien, / raccomandato anche dalla guida Routard, / si chiama Loc Thieu i proprietari sono muti / ma abilissimi a farsi capire, / specializzati nelle crêpe banh khoai, / letteralmente: dolce di piacere estremo [poetico?... corsivo mio!]… // Anche loro preferivano fare una doccia, / poi eventualmente / rimanere soli / tête a tête…

Estremamente fascinoso ma altrettanto prosastico malgrado la suddivisione in ‘versi’. Narrazione dalla straordinaria scrittura, ma tale da dire… ciò che è… bene dire per farci conoscere un luogo, un popolo, un uso, una emozione personale dell’Autore.

Ciò vale anche per diverse composizioni di questa raccolta ancora inedita che sto leggendo. Per esempio, in Lo zaino di Sisifo

A Kandikuning le brune bambine / avevano zainetti rosa uguali / con una diversa immagine di Barbie / andavano a scuola camminando piano / chiacchieravano ridenti in uniforme // non sapevano di possedere una grazia divina / non sapevano che l’esistenzialismo milanese gliel’avrebbe / sottratta rovinata lentamente macerata.

Sequenza deliziosa, commovente, documentaria e… moralistica. Opportunamente, apertamente moralistica, efficace, entro il fatto osservato e registrato, a distinguere due civiltà e una corruzione.

A questo punto mi piace rivolgermi al Troisio più strettamente poeta, viaggiatore sì ancora e sempre, ma, oltre ogni confine, nei territori della parola e delle sue insignificazioni bio-illogiche. Quella parola che, superati i motivi puramente icastici, nasce nuda e senza orpelli di significati ideologici dal nulla dei sensi e della mente. Quella parola che senza altri dubbi può dirsi poesia, etimologica poiéin quale produzione dialtri universi.

Molte di queste poesie di questa raccolta si svolgono in una forma fluens inarrestata e complessa: il lettore dovrà scoprirle – fra tanti motivi costretti alla cronaca dei viaggi – con pazienza penetrante per coglierne il senso dei sensi. A volte espressioni teoriche di una originale poetica, a volte pure emersioni sensuali e sanguigne, forse anche per il poeta inconscie. Qui, per ragioni di spazio e di discrezione verso l’intelligenza del lettore, si possono solamente citare alcuni frammenti.

L’incipit di Perché non conosciamo le avventure straordinarie è particolarmente significativo rispetto a quanto fin qui si è detto:

Le avventure più straordinarie / non furono mai documentate / né su stele né su papiro / tanto meno su feuilleton o sulla “Trivial Literature” / che si occupavano di banali imitazioni per condòmini poverini. / Non si devono raccontare. / Molti dubitano che siano davvero successe. / Rimasero nelle remote memorie delle fanciulle più riservate / belle in modo raro e divinamente timide / in quelle degli erculei trasgressivi marinai / di braccio forte e zigomi vigorosi.
// Notti inattese imprevedibili, sospiranti alcove silenziose / doni di incommensurabile lealtà / patti immacolati, / senza mappe rotte segrete / perfezioni inarrivabili / esilaranti burle
// tesori per caso rinvenuti e subito sperperati…

Così ancora per la più breve composizione Il segreto:
         Il vero segreto non solo “non è scritto” / ma non viene mai rivelato / sparisce con noi dopo averci macerato. //
Così si perdettero tesori, scoperte auree / tecniche ascose, rotte diritte (che invece / procedevano a spirali di Fibonacci). //
Quanto ponzare stesi oziare scrutando il mare / ombreggiati al vento privo di senso! //
Non c’è mezzo di andare via.

Ed ancora Le mie fanciulle:
         Non è la lingua che mi scrive. / A scultura finita la divina modella mi beffeggia / non è / quella ritrattta (la nuda signora scritta) / e nemmeno l’originale. //
Qualcosa mi trasporta. / Atroce condanna non riconoscere / non accontentare le proprie fanciulle / mentre l’originale preraffaellita / solecchia dal vicino alloro / quale scimmietta di Goya. //
[Concedo alle mie creature paternità ma / non sono in buona fede: / qualcuna è venuta benino. / Le amo tutte].

Da queste convinzioni inesprimibili sulla natura del niente (o del tutto, ché non fa differenza) nascono inopinatamente visioni, epifanie, ambigue e vaghe (quanto le stelle dell’Orsa…), come in  Terrazzini dimenticati

Case appartamenti scale condominiali / immobili di cui si è trascurata la manutenzione / seconde case / inferni labirintici doppie triple uscite / terrazzini dimenticati su nebbia / appaiono costanti / molto più frequenti delle belle ragazze //
in contesto prevalente urbano, mai centrale, / se a piano terra su strade strette, vicoli / ragni industriosi subentrati ad altri inquilini / ranocchie su terrazzini, / criceti fermi ingobbiti nei soggiorni misteriosi //
aiole scadenti rivendicate con piante / di peperoncino rosso non commestibile, / evocate nel giorno, / assieme ad affiorare improvviso laterale / d’altri pensieri / solo per istanti. //
[Lo scoiattolo zumato s’arresta / senza una causa]. / Il terribile passato riemerge. / non è liquidabile.

Tra metafisica ed espressionismo, memoria angosciosa e cancellata, percezione povera di povere cose (secondo esperienze visuali da tempo promosse ad opera d’arte) si dipana l’ambiguità, per l’appunto, di un nostalgico ribrezzo. Una archeologia onirica del disastro inconsciamente assimilato, accettato, vissuto quasi con piacevole estetica sorpresa. Sebbene si tratti pur sempre di un terribile passato non liquidabile. Una guerra, un cataclisma o semplicemente una tragica trascuratezza. Per tornare all’assunto teorico che mi sono arbitrariamente sforzato di sostenere è facile, in questo caso, come in altri testi della raccolta, cogliere la visione cronachistica occasionale per poter riascoltare l’origine indigente della vita. E del nostro passaggio. E della parola che lo racconta. Ma si tratta di una narrazione mutilata, perciò, paradossalmente, eternale senza principio né fine.

Varrebbe la pena di disquisire brevemente (ancorché evidenti) sui mezzi formali di queste avventure irraccontabili. Tuttavia, per non annoiare il lettore, è bene evitare la retorica della Retorica! Si notano comunque le consistenti irregolarità dei versi che sovente vivono come oggetti figurali autonomi, grazie ai numerosi enjambement e paratassi. Versi lunghissimi e versi di poche sillabe: denotano la misura che – in viaggio… - va per momenti fotografici istantanei, non solo alla visualità dinamica ma ancora alla mobilità delle sensazioni fisiche e del pensiero. Per usare una terminologia musicale, sequenze decisamente atonali. Con qualche piacevole ma rara sintesi armonica (rime o false rime o allitterazioni, isotopie) come nella breve e rara (non a caso) composizione Il segreto, fra i pochi testi che qui necessariamente si esemplificano.  In Le mie fanciulle (come altrove d’altronde) le allusioni, come le ambiguità (s’è già detto) ci conducono ai territori segreti della memoria inconscia, del vissuto perduto,  in cui non sempre il detto corrisponde alla superficiale realtà visibile: le parole-fanciulle e l’atroce (come l’orgasmo) , ma attraente, condanna di non riconoscere (eternali gemelle) le figure preraffaellite che aleggiano intorno e lo trasportano… dove? Ovviamente oltre, in cui la vaga (ir)ragione dell’amore rende qualunque creatura amabile.

È peculiare, perciò notevole, questa sensazione decisamente poetica se la si paragona al realismo di tante notazioni di viaggio (giornali di bordo) che Troisio per sua missione ci propone, anche in testi dati per poetici in senso specifico… ma (anche questo s’è ripetuto) non specificatamente poetici, sebbene di scrittura pur sempre altamente qualitativa. Questa evasione, per l’appunto, preraffaellita – sebbene ironicamente percepita – sorprende e rivela un Troisio apparentemente inaspettato. Apparentemente, poiché infine tutta questa raccolta, come altre, è disseminata forse con ritrosia di amorosa pietas, di grazie nascoste: si ricordino le bambine di Candikuning con gli zainetti di Barbie… Poesia dello spirito prim’ancora che poesia della scrittura, come nel testo  La scatola d’oro:
L’angoscia presuppone unicità solitudine / il dono sacro è stupendo ma anche costoso doloroso / sperare dunque che le porticine [si noti il grazioso diminutivo – corsivo mio] / seppure non a comando si riaprano / avvenga la partenza sia concesso / d’essere ancora ammesso / al destinato divino congresso…
La partenza, attraverso la porta stretta (porticina…) per un altro viaggio.

 

Stefano Guglielmin

Quando si scrive sulla poesia di Luciano Troisio, tutti concordano sulla sua natura funambolica, giocata sul filo ardente dell'ironia, del sarcasmo, della citazione colta, del plurilinguismo, un andare per arie talvolta rarefatte talaltra per fanghi e rovine, sempre consapevole, come scrive Gio Ferri "di un terribile passato non liquidabile", ma anche, direi – e 'Locations, impermanenza' (Cleup, 2012) s'incarica di approfondirlo – dell'impossibilità di pensarci stabilmente fondati, garantiti in un Eschaton necessario. Non esiste infatti alcuna forza metastorica, tantomeno salvifica nella filosofia di Troisio, bensì uno sguardo disincantato alla Voltaire, che non coincide né con l'ottimismo di Pangloss né con l'ingenuità di Candid. Uno sguardo sempre mediato dallo scetticismo dell'intelligenza moderna, che indaga le cose e il discorso sulle cose, qui e altrove, nel suo Veneto antropizzato e nella sua Asia globalizzata, dove flotte di turisti curiosi lasciano ovunque bave come lumache.

Troisio è un viaggiatore di professione, anzi un ozioso flaneur euroasiatico, che organizza cataloghi ricchi d'aneddoti e di personaggi, colti per rapidi tratti, a esemplificare la specie sapiens sapiens di tutte le latitudini, tutta impegnata nel tentativo, a volte penoso, di mascherare l'evidenza che "Infinito non è l'Esistente ma la Distanza, il Vuoto / [...] / dove la materia quasi pulcino timidissimo / ingenuo nei movimenti tenta di insediarsi". Lo sapevano certi antichi e i moderni più emancipati, come Baudelaire e Leopardi. E ce lo racconta, mai così esplicitamente, 'Locations, impermanenza', accostando due termini di famiglia semantica antitetica: il primo proprio al linguaggio mass-mediale, direi quasi, latu sensu, berlusconiano; il secondo evocando i fondamentali del buddismo. Troisio, tuttavia, nemmeno per quest'ultimo dimostra riverenza, in grazia, o in disgrazia, delle mode novecentesche, che l'hanno ridotto a pratiche consumistiche e/o spettacolari. "La suora svizzera buddista" ne incarna l'emblema, convinta com'è che "il Nirvana non esista affatto / all'infuori di lei" e, mentre "fissa il mare" e "la crisi del soggetto, / si porta sigarette e caffè".
Invece, è evidente, l'impermanenza, così come esce dal canone buddista, interessa allo scettico padovano, la fa propria in molte pagine del libro, ma anche la location conta: ogni poesia porta in calce luogo e data (eccone alcuni: Phonsavan, Kuta, Luang Prabang, Hanoi, Saigon, Bangkok) facendo il verso, in tempi di pace armata come questi, all'Ungaretti de l'Allegria, che il nostro si prende il gusto, blasfemo per alcuni nostalgici, di definire "scaltro furbacchione invadente" per le sue sussiegose riverenze a Mussolini. Invero, da buon polemista, egli ritrae con l'acido quasi tutti. Salva qualche rara amicizia e l'idea del bello incarnato dalle fanciulle prima che comincino a pensare, siano esse ridenti studentesse in uniforme a Candikuning o quelle rarissime concubine cui ha riservato vero amore, come scrive in "Il più lontano dei baci", testo che, assieme a "Fine della T-shirt di Juno", lascia emergere un tombeur de femmes d'altri tempi, decadente nello spirito ma non nella lingua che lo dice, così chiara e senza fronzoli sonori, piena di oggetti e spazi riconoscibili. Questo vale in questi passaggi perché Troisio è anche capace dell'inverso, ossia di innestare l'astrazione più insopportabilmente snob su di un ceppo espressivo da bloc-notes, come in questo passo, per esempio: "Tornando dal ristorante, dopo un'assenza di circa 40 minuti / l'esistente si è così modificato: // smantellamento imprevedibile e trapanio nella prossemica / della mia stanza e nel suo ambito acustico acuto". L'effetto è la ridondanza, ma anche l'ironia su di essa, una paradossale figura in cui il serpente si mangia la testa.

Tutto il libro, invero, è un continuo agire su differenti pedali stilistici, in un melange talvolta assai stretto, per ribadire il disincanto di base e l'imbarazzo per essere poeti oggi, dopo la morte di Dio e la perdita d'aureola, e dopo la constatazione che sono sempre più rare le fanciulle disposte a farsi sedurre dai cantori, per quanto istrionici siano. Troisio si ferma a un passo da tale postura, guizza leggero tra D'annunzio e Arbasino, dialoga con Gozzano, tre esteti su cui, a tratti, egli salta in groppa, ma soltanto perché in vena di sberleffi. La sua indole solitaria e da grillo parlante lo fa diffidare dei geniali pinocchi della lingua e della mondanità, fratelli eppure lontani, immerso com'è nella certezza della "propria Nullità", scritta in maiuscolo, come un lungo codino di Müncahausen cui tenersi sospesi nell'aria, disperdendo i canti. Il suo porto sepolto è il ventre caldo dell'Asia ma anche la pagina bianca, "servizievole vibrante stargate", labirinto rizomatico che collega e ricompone in media res le indefinite posizioni dell'essere, campo di forze dove "autorizzare che qualcosa avvenga", ma sempre con il beneficio del dubbio come si confà ad un imprendibile moderno della sua specie.

 

Ivan Pozzoni

     L’intera «poetica» di Locations (Luciano Troisio) si irradia dal dis-velamento di un inquietante assunto ontologico sul mondo: il mondo è «desertificazione» («Egli parla come se le cose fossero vere, serie, / come se il mondo non fosse eolica polverosa / desertificazione infinito incenerimento […]» [28]), caratterizzata dai tratti della «precarietà» e del «[…] vietato vivere in serenità […]» («È generale la precarietà / a tutti toglie tranquillità / a noi è vietato vivere in serenità / incumbit onus probandi» [95]); conseguenza, annichilente («Galleggiare / (cadere)? / Dal Vuoto l’onesto contempla / la propria Nullità / la vede evidente […]» [7]), dell’assunto della «desertificazione» del mondo è la trasformazione, intollerabile, della condizione ontologica umana da stanziale, coltivatrice dei territori fertili della cultura, a nomade, navigatrice del deserto:

L’immonda catena che lega ai macchinari agli orari
ai treni regionali e pendolari
ai calviniani notturni turni
si può sopportare soltanto se ci attende
uno stupendo amore una curvilinea amichetta [94].

La sabbia, simile all’acqua, confonde l’oggettività del mondo, costringendo i nuovi nomadi a navigare sulle sabbie della «liquefazione»:

[…] sono sicuro che gran parte degli oggetti
anche belli anche molto curati, lo ammetto
non hanno nulla di vero sono fatti di polistirolo
le facciate sembrano ancorate a cavi posteriori
io non ho più voglia di sincerarmene
sono sempre più stanco
devo prendere le gocce
la mia tacita desolazione è rafforzata a fortiori
o meglio a deboliori
dall’evidenza che nulla è pronto, che tutto è artefatto
che il mondo è solo un frettoloso percorso una stangata
quel correre quell’affannarsi di agenti di servi malvestiti […]
l’irredimibile è già avvenuto
(in termini chimico-fisici:
“soluzione” = “liquefazione”)
lo sfaldarsi del tutto è imminente […] [121/122].

La «desertificazione» del mondo trasforma, nella stessa visione di Bauman, l’essere umano in «nomade»: secondo inquietante assunto di Locations è la rilevazione della non-monoliticità, trinomica, della categoria del «nomade» («si contemplano compromessi / ci sono i maniaci del milione di Buddha / pantalonaie stiliste propense al cotonato / altri collezionano solo ragazze delle minoranze / i colti sentenziano che non si deve» [42]). I testi di Troisio scoprono, anzitutto, le carte della distinzione tra nomadi managers (1) e nomadi «straccioni» (2 / 3):

            Non si spiega altrimenti come possa girare da straccione
portandosi il mondo sulle spalle, senza mollarlo un momento,
si siede sul marciapiede, su un gradino di tempio,
posando lo zaino su quello superiore
trangugia una baguette ripiena di tonno e insalata mal lavata
guarda al di là della strada il suo omologo ricco beatamente
gioire il suo american bf
bere un’autentica fresca spremuta di arance protetto dall’ombrellone
al tavolino della Dubonnet [16],

Mai incoraggiati, «al di là della strada», al contatto («Siamo stati tollerati a guardare in disparte le sfilate i banchetti. / Senz’auto i luoghi non erano raggiungibili. / Forse per noi lo sono ancora. Per noi / il mondo non risulta né godibile né conoscibile» [113]); dominatori del «silenzio» («Silenzio: ormai un optional di lusso / che nessuna agenzia assicura più» [76]), del movimento silenzioso sulle linee telematiche, senza ostacoli, del worldwideweb, i nomadi managers vivono fortezze inavvicinabili, vincolando il rifiuto umano, «straccioni», scarti di magazzino, «[…] al last minute per il suo giogo […]», e condannandoli a incomunicabilità e a incomunitarietà («E poi è finita, ognuno se n’è divergendo ripartito / al last minute per il suo giogo / ha rinchiuso lo zaino della non condivisione / poi ché nulla succede […]» [15]). Il nomade «straccione», deterritorializzato («Lontani da chi vorremmo / insieme a chi non vorremmo; a scrocco mendichi» [10]), neutralizzato dall’ingannevole serenità del consumismo («La pensione basta e avanza / il personale non costa nulla / si mangia bene / il pronto soccorso è a due passi» [13]), continua a dover trascinare il suo «zaino di Sisifo» [17], nella dubbiosa certezza che «[…] alle libere marionette molto è vietato […]» [101]; nella categoria dello «straccione» entra una seconda distinzione tra nomade turista (2) e nomade artista (3):

            Ti lodo turistico voucher,
vi ringrazio algebrici conti di ristorante etnico
souvenir di cibi ed alfabeti.
Servizievoli adattabili
fissate al vostro verso effimere mie nugae,
le salvate perché accadano, immantinente le (de)costruite
prima che rientrino dal nanobrillio
all’istantaneo “indistinto” del fiume,
al demente anonimo farfuglio [39].

La differenza ontologica tra turisti e artisti è decisiva ai fini della sussistenza della definizione stessa di «arte», o di ogni tentativo di fare «arte». Il turista, «[…] oramai inebetito / trafitto demolito da pene lancinanti» ([57]), novello servo dei consumi nella società tardo-moderna («Non che sia una particolare fortuna / perché ormai anche il bubulco / pone la ronca e afferra il cellulare / fa lo zapping il zappatore / può facilmente eiaculare / in sincopato messaggino / il suo inesprimibile nulla» [81]), è descritto, con toni ironici e modi esaustivi, dai versi di Troisio:

            [Sciatto turista in questa plaga invece
a causa d’evidente estraneità
monaco di montagna poco acuto
finto ridente quieto sordomuto
per genti e valli insonorizzate
orbato dell’amore delle fate
solo calpesto i più dolenti calli] [44];

la figura dell’artista emerge, inattesa, dalla sabbia / acqua della «desertificazione»:

            Affiora a tratti il morbo sacro
il poeta pallido
a richiesta non si concede
rabberciato in mille tradimenti finalmente
cedevole alle apparenze [8],
cosciente dell’esilio e della deterritorializzazione:
Io da piccolo ero ricco (non lo sapevo ) / avevo un orto e campi colmi di piante da frutto, / vigne erba ortaggi asparagi, il vialetto era / colmo di tutti i fiori giaggioli primule narcisi, / […] Ora non ho più nessun / giardino nessun orto / a cuore trafitto conservo nella scarpiera / quella forbice / da tralci» [55/56]),   

Desideroso di riscatto e di resistenza:

Io vengo per i fiori, vengo / per il fantastico giardino / di palme banani ibischi orchidee buganvillee / e tante altre piante aristocratiche / carnose affascinanti dai grandi fiori deliranti / di cui ignoro il nome [59]).

La resilienza è carattere ontologico essenziale alla dimensione dell’artista, come rilevato da Troisio in

            […] ce ne freghiamo delle vostre ricchezze
ci fate pena per come sperperate i fondi
ammettiamo che le vostre belle compagne
come personale ci andrebbero
saremmo disposti a riconoscere il vostro valore
se ne aveste uno
ci umiliate privandoci perfino di validi nemici [41]

e

            Da stimatissimi studi etologico-statistici
risulterebbe che circa il 92%
degli Homines Sapientes
sarebbero compatibili con la sottospecie Imbecillis.
Resta un opulento otto per cento
di svegli colti sicuri intelligenti ambiziosi
seriamente intenzionati ad opporsi. Sì!
- I mi sobbarco!-
a migliorare
(le mie fortune
e in seconda battuta)
 il mondo in generale [87];

Ed è orientata a spezzare i vincoli dell’incomunicabilità

Gli mando una e-mail confortante / (alle tenebre reagire / con la protezione/proiezione della luce). / Nessuna risposta. / Dopo una settimana gliene mando un altro / (come va?) / L’amico non risponde più [73]),
riedificando, nel o fuori dal «deserto», cattedrali di comunità. Con Locations Troisio introduce una weltanschauung, nomade, in netta consonanza all’ontologia della «desertificazione» del mondo tardo-moderno: in un «deserto», fatto di acqua e sabbia, convivono tre categorie, incomunicanti, di nomadi, managers (1), turisti (2) e artisti (3); l’ufficio di consolidare mondi, distribuendo resilienza, è affidato esclusivamente all’artista, e al fare «arte», come unico rimedio contro il morir di sete in un deserto d’acqua.